L'intervento di protesi d'anca è un intervento chirurgico nel quale si inserisce una protesi che sostituisce la testa del femore e, in alcuni casi, un'ulteriore protesi che sostituisce la cavità dell'acetabolo.
È uno degli interventi chirurgici più frequenti, soprattutto oltre i 50 anni e in Italia se ne fanno circa 70.000 ogni anno.
L'articolazione dell'anca (o articolazione coxo-femorale) è costituita da due segmenti scheletrici che prendono rapporto tra loro:
Questi due segmenti ossei sono ricoperti da cartilagine articolare e sono mantenuti saldamente insieme da vari legamenti e dalla capsula articolare.
Dal punto di vista meccanico, l'articolazione dell'anca è molto mobile in tutti i piani dello spazio e ciò, in associazione al fatto che essa regge il carico della parte superiore del corpo, la rende suscettibile a problematiche importanti e frequenti come le patologie degenerative (artrosi in primis) e traumatiche (frattura del collo del femore).
Vediamo le più frequenti.
Artrosi d'anca, che a sua volta si suddivide in:
Fratture della testa del femore: soprattutto nell'anziano si preferisce usare la protesi perché è alto il rischio che la frattura non si consolidi o che la testa vada in necrosi.
Necrosi della testa del femore (sono molti i meccanismi possibili oltre a quello descritto nel punto precedente).
Artriti su base autoimmune (artrite reumatoide e altre) o infettive.
L'artrosi è una patologia degenerativa in cui le cartilagini articolari si consumano e ciò porta alla formazione di irregolarità e sfregamenti dell'osso sottostante, con conseguente dolore e limitazione funzionale. Il dolore compare soprattutto con il movimento, raramente a riposo, e attività quotidiane anche banali che coinvolgono l'articolazione dell'anca possono diventare insostenibili. Può comparire una zoppia dovuta ad un atteggiamento antalgico, teso a evitare il più possibile sollecitazioni dell'anca malata.
In queste condizioni può rendersi necessario un intervento di protesi d'anca, che ha l'obiettivo di risolvere la sintomatologia dolorosa (e ciò ha come ulteriore beneficio il fatto che il paziente non dovrà più usare/abusare di farmaci anti-infiammatori per controllare il dolore) e ridurre le difficoltà motorie.
Per approfondire, vai all'articolo sull'artrosi d'anca.
Le protesi d'anca si possono suddividere in due grandi categorie:
Endoprotesi, nella quale si sostituisce solo la testa femorale, mentre non si tocca l'acetabolo del paziente. Questo tipo di protesi si usa quando l'acetabolo è in buone condizioni (quindi non è possibile utilizzarla nell'artrosi). L'indicazione principale è nei pazienti anziani, in seguito a frattura, poiché è un intervento meno impegnativo e permette una più rapida riabilitazione, elemento fondamentale poiché l'allettamento e la mancata ripresa della mobilità sono un importante fattore di rischio nell'anziano.
Artroprotesi (o protesi totale), si usa nei restanti casi. È costituita da 2 elementi protesici: un elemento che va a sostituire testa e collo del femore (analogamente all'endoprotesi) e un altro, una coppa cava semisferica, che costituisce la neo cavità acetabolare.
La tecnologia ha raggiunto un gradi di sviluppo tale per cui esiste un range di protesi molto ampio per forme e dimensioni, in modo da adattarsi il più possibile alle caratteristiche fisiche del paziente.
Anche i materiali di cui sono costituite le protesi sono vari e in continua innovazione, fermo restando che si tratta comunque di materiali biocompatibili, cioè che non vengono rigettati dal corpo (nella stragrande maggioranza dei casi anche se esistono rari casi in cui la protesi viene rigettata e bisogna sostituirla con un altro intervento). Attualmente la soluzione più utilizzata è costituita da elementi con un'anima di metallo (il più delle volte di titanio), ricoperta da materiale ceramico, in corrispondenza dell'articolazione. A volte si usa una resina per cementare meglio la protesi nell'osso.
Nonostante questa avanguardia tecnologica, ad oggi, le protesi migliori hanno comunque una durata limitata e che si aggira intorno ai 15-20 anni. Per questo motivo, soprattutto nei pazienti più giovani, si creca di rimandare l'intervento chirurgico il più possibile, finché esso non sia reso indispensabile a causa del dolore e della limitazione funzionale.
Il primo passo è la visita effettuata dal chirurgo ortopedico.
In seguito si procede all'esecuzione di radiografie dell'articolazione interessata e, in alcuni casi, anche TAC e risonanza magnetica.
Una volta posta indicazione all'intervento, viene effettuata una valutazione anestesiologica, come per tutti gli altri interventi chirurgici, nella quale l'anestesista indaga eventuali controindicazioni generali all'intervento (problemi di cuore e/o respiratori), si analizzano gli esami del sangue e si concorda il tipo di anestesia da effettuare durante l'intervento (la scelta è tra anestesia generale o spinale/epidurale).
Al momento del ricovero viene effettuata la preparazione infermieristica (pulizia dell'intestino, depilazione del sito chirurgico, lavaggio accurato) e viene instaurata una profilassi antibiotica.
Va tenuto presente che il paziente dovrà sospendere i farmaci antiaggreganti e anticoagulanti (aspirina, ticlopidina, clopidogrel, cumadin) a partire da 5-7 giorni prima dell'intervento. Se necessario, essi verranno sostituiti con eparina, la quale verrà continuata anche dopo l'intervento.
Mediamente, l'intervento dura in tutto circa 2 ore.
Esistono vari tipi di approccio chirurgico all'articolazione ma, quello più utilizzato, prevede un'incisione laterale. Grazie alle tecniche mini-invasive, che si stanno sempre più diffondendo, viene effettuato un taglio sulla cute di soli 8 cm.
Al termine dell'intervento la cute viene suturata con punti di sutura classici o metallici, che verranno rimossi a distanza di 2-3 settimane dall'intervento.
Inoltre, per ridurre il rischio di ematomi, vengono applicati 2 drenaggi, che vengono rimossi dopo 1-2 giorni.
Per alcuni pazienti (soprattutto cardiopatici), può essere necessario un ricovero in terapia intensiva per monitorare al meglio la fase post-operatoria.
L'intervento di protesi d'anca viene eseguito con estremo successo da oltre 30 anni e, dato il grande numero di interventi, i chirurghi sono generalmente molto esperti e abili. Tuttavia, esiste un rischio, seppur basso, di complicanze, tra cui: lussazione della protesi, infezioni, ematomi, lesioni nervose, dismetria degli arti inferiori, danni muscolo-tendinei, l'usura e persino la rottura della protesi; oltre a queste ci sono le complicanze generali di tutti gli interventi chirurgici, tra cui particolare attenzione va posta alla trombosi venosa.
La degenza post-operatoria dura in media 3-5 giorni.
Il dolore viene trattato con un cocktail di vari farmaci antidolorifici in vena, che vengono ridotti sempre più e in seguito passati per bocca, finché necessario.
Già in questa primissima fase viene intrapreso il percorso riabilitativo del paziente.
Il giorno dell'intervento si lavora a letto del paziente che, con l'aiuto del fisioterapista, deve contrarre il quadricipite e muovere la caviglia.
Nei giorni successivi si comincia la mobilizzazione sia attiva che passiva dell'articolazione operata, fino a che il paziente è in grado di camminare, prima aiutandosi con un deambulatore, poi con 2 stampelle.
La mobilizzazione precoce dell'arto operato è inoltre fondamentale perché attiva la pompa venosa e aiuta a prevenire la trombosi venosa degli arti inferiori, una delle complicanze più temibili degli interventi chirurgici, in particolare ortopedici. Alla mobilizzazione precoce va affiancato l'uso di calze elastiche compressive per le prime settimane e la profilassi con eparina per circa 1 mese.
Dopo la dimissione, il paziente deve mantenere grande costanza nell'esecuzione della fisioterapia (meglio se con l'aiuto di professionisti, all'interno di centri riabilitativi specializzati), che prevederà esercizi sempre più impegnativi (naturalmente stando sempre attenti a non sovraccaricare l'arto operato) fino all'abbandono delle stampelle, che avviene mediamente circa 1 mese dopo l'intervento.
In coincidenza con l'abbandono delle stampelle, si considera che si sia raggiunto un livello di autonomia tale da poter riprendere a guidare l'automobile.
In questo periodo possono essere riprese, con cautela, le attività quotidiane e lavorative, in relazione all'impegno che esse comportano e alle condizioni generali del paziente.
Inoltre esistono dei vademecum (solitamente rilasciati dagli ospedali stessi o dai centri riabilitativi) che istruiscono il paziente circa alcune norme per salvaguardare al meglio la protesi nei gesti della vita quotidiana ed evitare complicazioni.
A scadenze prestabilite (di solito dopo 1, 3 e 6 mesi), il paziente effettuerà delle visite di controllo presso il chirurgo ortopedico, per verificare la buona riuscita dell'intervento e monitorare i progressi nella ripresa delle attività motorie.
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