Se siete appassionati di alimentazione, avrete sicuramente sentito parlare di rapporto tra omega 3 e omega 6, come di uno dei fattori fondamentali per mantenere un organismo sano tramite la corretta alimentazione.
Gli omega 3 e gli omega 6 sono acidi grassi polinsaturi, alcuni dei quali essenziali (ovvero che devono necessariamente essere introdotti con l'alimentazione).
Se vuoi approfondire il tema, prima di proseguire ti consiglio la lettura di questi articoli:
Le informazioni che troverai in questo articolo sono il condensato di questa review pubblicata nel 2018.
Molti pensano che gli studi sui grassi essenziali, sui grassi "omega" e sul loro rapporto sia recente. In effetti, questo tema è diventato "mainstream" agli inizi degli anni 2000, con la pubblicazione di alcuni testi come quello di Udo Erasmus (Fats that heal, fats that kill), che io comprai negli USA nel lontano 2002, e con la ribalta della dieta a zona, che proprio in quegli anni spopolava nelle palestre di tutto il mondo.
In realtà, fin dagli anni '60 gli scienziati avevano compreso l'importanza dei grassi nell'alimentazione. Si era già capito che i grassi polinsaturi erano benefici, mentre quelli saturi erano dannosi, e si stavano già studiando gli effetti sulla salute dell'alterazione del rapporto tra queste due tipologie di grassi. Ai tempi, quindi, si pensava che ottimizzando il rapporto tra grassi polinsaturi e saturi, si potesse migliorare la condizione del soggetto, ovviamente riguardo soprattutto le malattie cardiovascolari.
Più tardi, tuttavia, si capì che le cose non erano così lineari, ovvero che era molto semplicistico parlare semplicemente di grassi saturi come dannosi, e di insaturi come "buoni".
Infatti si scoprì che alcuni grassi saturi non erano dannosi (come il palmitico), mentre altri lo erano (come lo stearico), e lo stesso valeva anche per quanto riguarda i polinsaturi (i grassi trans sono polinsaturi, ma dannosissimi).
Negli anni '70 si scoprì che alcuni grassi polinsaturi contenuti negli animali marini, nella fattispecie l'EPA e il DHA, erano particolarmente benefici per la salute delle arterie. Quando si scoprì che l'acido arachidonico (AA) entrava in competizione con l'EPA nell'utilizzo di diversi enzimi coinvolti nel processo infiammatorio, si iniziò a credere che avesse un'importanza fondamentale il rapporto tra questi acidi grassi, sia nell'alimentazione che nelle cellule dell'organismo.
Altre scoperte non fecero altro che alimentare la tesi secondo la quale i grassi polinsaturi dovessero essere divisi tra "buoni" (gli omega 3) e "cattivi" (gli omega 6).
Holman e altri, scoprirono che l'acido linoleico (LA, omega 6) e l'acido alfa-linolenico (ALA, omega 3) competevano a loro volta tra di loro nell'utilizzo degli enzimi necessari per la loro trasformazione in AA ed EPA. Inoltre, si scoprì che l'aspirina, potente antinfiammatorio, era in grado di bloccare la conversione dell'acido arachidonico in tutta una serie di eicosanoidi pro-infiammatori. Questo fece credere agli scienziati che lo stesso AA fosse antinfiammatorio, e quindi dannoso a prescindere.
Da quel momento, gli omega 6 sono diventati "cattivi" e gli omega 3 "buoni", e ancora oggi moltissimi autori sono convinti di questo fatto, e incoraggiano le persone a ridurre il consumo di questi grassi, considerati dannosi.
Purtroppo, però, le cose non sono così semplici.
Infatti, studi successivi hanno scoperto che:
Inoltre, lo stesso rapporto tra omega 6 e omega 3 perde completamente di significato nel momento in cui sappiamo che non tutti gli omega 6 sono pro-infiammatori. Il rapporto, semmai, andrebbe fatto considerando gli specifici acidi grassi "cattivi", in rapporto a quelli "buoni". Ciliegina sulla torta: a seconda del tessuto utilizzato come campione, i rapporti tra i grassi omega 6 e 3 variano considerevolmente.
Insomma, nel 2021 parlare ancora di rapporto tra grassi buoni e cattivi, è semplicemente anacronistico.
Attualmente una cosa sembra abbastanza certa: una carenza degli omega 3 "marini", ovvero EPA e DHA, sembra essere effettivamente associata ad un maggior rischio di incappare in problemi di salute.
Il modo più semplice ed efficace per misurare i livelli di EPA e DHA nel sangue, sembra essere quello di rilevarne la concentrazione nei globuli rossi. È stato quindi coniato il termine "Omega 3 Index", espresso come concentrazione dei grassi EPA e DHA nellla membrana degli eritrociti (i gobuli rossi) in rapporto a tutti gli acidi grassi presenti nella membrana stessa.
Questo indice è fortemente correlato all'assunzione di EPA e DHA con la dieta, e quindi può essere efficacemente utilizzato per eseguire studi scientifici che mettano in relazione la dieta delle popolazioni con il loro stato di salute.
Uno dei limiti di questo indice è il fatto che non discrimini tra i due acidi grassi, che potrebbero avere un'importanza diversa. In futuro sarà interessante capire se effettivamente uno dei due grassi omega 3 sia più importante dell'altro.
Allo stato attuale della ricerca, siamo abbastanza certi del fatto che aumentando la quantità di omega 3 e di omega 6 nella dieta dell'occidentale medio, otterremo un vantaggio in termini di salute.
Questo significa aumentare il consumo di fonti grasse vegetali, in sostituzione di quelle animali.
Consumare una quantità maggiore di omega 6 non è un problema, basta assumere frutta secca oppure prodotti con olio di girasole (che oggi imperversa ovunque, dopo la messa al bando o quasi dell'olio di palma).
Per quanto riguarda EPA e DHA, le cose non sono altrettanto semplici. Infatti, questi grassi sono contenuti quasi esclusivamente nel pesce grasso. Se non si consumano due o tre volte a settimana pesci quali sardine, salmoni o altri pesci grassi, il mio consiglio è quello di assumere abitualmente integratori di grassi omega 3, per avere la garanzia di raggiungere le quantità minime raccomandate dalle autorità sanitarie internazionali (vedi: integrazione di omega 3).
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Alimenti ricchi di omega 3 | Tabella | Pesce e altre fonti
Alimenti ricchi di omega 6 | Tabella
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