La pitina è un prodotto a base di carne di pecora, capra o selvaggina, prodotta tradizionalmente nelle zone montane del Friuli Venezia Giulia, in particolare nel comune di Tramonti di Sopra e nelle zone limitrofe della Valtramontina, in provincia di Pordenone. La pitina è classificata tra i salumi, anche se non è propriamente un insaccato e, in questo, ricorda molto la mortandela della Val di Non, con la quale ha in comune la forma di una grande polpetta e l'impanatura nella farina, in questo caso di mais e non di grano saraceno.
La pitina viene prodotta anche nelle sue due varianti: la peta, che si distingue dalla pitina per le dimensioni più grandi e la petuccia, che viene ottenuta con un diverso trito di erbe aromatiche aggiunte all'impasto. Ma peta e petuccia sono prodotti più commerciali, che hanno perso quell'aroma selvatico della tradizione per andare incontro ai palati moderni e quindi vengono per lo più prodotte con carne di manzo e di maiale, a differenza della pitina che, invece, nel corso dei secoli è rimasta fedele alle origini, grazie ai macellai della zona.
Fin dal 1800, in epoche molto meno abbienti di quella attuale soprattutto per le zone di montagna, nelle malghe della Valtramontina quando si ammalava una pecora, o quando una capra si rompeva una zampa, o quando venivano cacciati e uccisi camosci e caprioli, si trovava il modo di non sprecare nulla dell'animale appena morto, quindi, mentre una parte delle carni era destinata al consumo immediato, tutto il resto doveva essere conservato il più a lungo possibile. Nacquero così le pitine, che altro non sono che polpette di carne macinata, passate nella farina di mais e poi messe ad affumicare e a stagionare per fare in modo che potessero durare mesi in dispensa e garantissero la sopravvivenza nei momenti più difficili. Le pitine hanno sempre avuto una diffusione strettamente localizzata in Valtramontina e in poche altre zone montane del Friuli, almeno fino a quando slow food non ha fatto di queste polpette un presidio con l'intento di continuare a tramandare la tradizione della pitina di malga in malga e di promuoverla anche fuori dai confini regionali.
Una volta recuperato l'animale, capra, pecora o camoscio che sia, lo si disossa e le sue carni vengono triturate nella pestadora (un recipiente incavato nel legno). All'impasto vengono aggiunti sale, aglio, pepe nero e aromi, di solito erbe alpine, e anche una piccola percentuale di grasso di maiale che ingentilisce il sapore selvatico della pitina. Poi si continua a lavorare l'impasto con le mani formando delle polpette rotonde e un po' appiattite. Queste vengono passate nella farina di mais e poi poste su mensole di legno in un locale adibito all'affumicatura per combustione di legno di faggio. Infine si lasciano stagionare per almeno 30 giorni. Una volta pronta, la pitina si presenta come una palla gialla, per via della farina di mais, con chiazze dovute a delle muffe innocue, viene quindi spazzolata e lavata con acqua e aceto e consumata cruda a fette abbinata al pane, oppure cotta bollita nel latte o rosolata in padella con il burro e accompagnata da cipolle, patate o polenta.
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