Le microplastiche negli alimenti sono state rilevate da diversi studi e possono avere differenti tipi di origine, dall'aria dell'ambiente in cui consumiamo i pasti, al cibo stesso che mangiamo. Ma sono davvero pericolose? Vediamo di rispondere a questa e ad altre domande nel corso di questo articolo.
Le microplastiche sono particelle derivanti da materiale plastico che hanno dimensioni inferiori ai 5 mm, e comprese tra 0,1 e 5000 micrometri. Esse sono quindi microparticelle che possiamo ritrovare negli alimenti, acqua compresa, in seguito all'uso di imballaggi e bottiglie di plastica.
Questo è confermato da uno studio molto recente, del 2019, realizzato da un'università canadese, in cui i ricercatori hanno analizzato la quantità di microplastiche che gli americani ingeriscono normalmente attraverso la dieta. Dai dati rilevati, è stato visto che ogni anno ogni adulto maschio americano ingerisce circa 52 mila particelle all'anno, sia attraverso il consumo di alimenti che attraverso le bevande. Questo numero è lievemente inferiore per le donne, 46 mila, e per i bambini, 41 mila nei maschi e 38 mila nelle femmine. Questi dati, davvero impressionanti, riguardano solo il 15% delle calorie totali ingerite dalla popolazione americana, in quanto è difficile stimare la quantità di microplastiche derivanti dall'intera dieta. Se ciò fosse possibile, questi valori potrebbero solo essere superiori.
Dagli studi condotti sino ad ora è stato rilevato che la maggior fonte di microplastiche è proprio l'acqua minerale, nella gran parte dei casi imbottigliata in materiale plastico, perchè meno dispendioso. Nell'elenco dei prodotti che contengono microplastiche sembrano esservi i frutti di mare, il miele, lo zucchero, il sale, così come anche la birra.
In realtà, non si può dire che gli altri alimenti non siano fonte di microparticelle plastiche, ma semplicemente non ci sono ancora dati a riguardo.
Se pensiamo all'acqua, però, un dato lo abbiamo: quella minerale apporta 22 volte in più la quantità di microplastiche che è invece dovuta al consumo dell'acqua potabile da rubinetto. Sono stimate circa 130 mila particelle plastiche derivanti dall'acqua minerale imbottigliata, contro le appena 4 mila dell'acqua potabile da rubinetto. Se si pensa, poi, che questi sono valori rapportati al consumo americano, quello italiano dovrebbe essere addirittura superiore. Il nostro paese, infatti, è il maggior consumatore al mondo di acqua in bottiglia. Ogni anno il consumo stimato di acqua in bottiglia nel nostro paese è pari a 14,8 miliardi di litri di acqua.
Le microplastiche derivanti nell'acqua di rubinetto derivano probabilmente dall'aria che le trasporta, per poi depositarle nella rete idrica. Il motivo di questa presenza è sicuramente l'abbandono dei rifiuti nell'ambiente, e nel mare in particolare, ma anche l'uso di alcune fibre sintetiche per i vestiti che contengono microplastiche e di alcuni cosmetici che le possono liberare nell'ambiente. Basti pensare, poi, che il 5% dei rifiuti prodotti è costituito da materiale plastico, parte dei quali sono costituiti dai sacchetti di plastica che spesso erroneamente vengono usati anche per la raccolta differenziata dell'umido, aumentando quindi l'immissione di plastica, e quindi microplastica, nell'ambiente, da cui poi entra nella catena alimentare.
Nonostante l'acqua del rubinetto venga potabilizzata prima di essere immessa nella rete idrica, le microplastiche possono comunque essere riscontrate, perché non vengono filtrate dai normali sistemi di filtraggio usati per la potabilizzazione delle acque.
Nel corso del tempo, diversi studi hanno dimostrato che attraverso gli alimenti andiamo ad ingerire anche materiale plastico. Questo deriva dai crostacei e molluschi bivalvi, che vengono sempre più contaminati nelle acque in cui vivono. I molluschi in particolare sono organismi filtratori e di conseguenza, li portiamo in tavola insieme agli inquinanti dei mari in cui vivono. In particolare, sono le cozze gli organismi che portano in tavola la maggior quantità di microplastiche, dato che sono i maggiori filtratori dei nostri mari. Anche il pesce che mangiamo ingerisce microplastiche, ma non arrivano a noi quando lo mangiamo perché ne scartiamo l'intestino, in cui queste particelle vanno ad accumularsi. Al contrario, invece, nel caso dei crostacei e dei molluschi consumiamo anche l'intestino.
La plastica che arriva nei mari è talmente tanta che è stato definito un nome apposito per indicarla, "zuppa di plastica", che rende l'idea dell'entità di questo problema. Una volta in mare, questi rifiuti si frammentano in porzioni più piccole, andando a forma microplastica e, talvolta, nanoplastica. Esse hanno diverse morfologie, da quella a fiocchi a quella a granelli o sferica.
Secondo uno studio del 2018, con ogni piatto andiamo ad ingerire circa 114 particelle di plastica in modo involontario, in seguito al consumo di un piatto di cibo. Queste particelle sarebbero derivate dall'ambiente in cui viviamo e consumiamo i pasti, anche in ambito familiare. Secondo questo studio, il rischio di ingerire materiale plastico in questa modalità è addirittura superiore a quello dell'assunzione attraverso i molluschi, che è stimato essere pari a 100 in un piatto di cozze. Le microplastiche derivanti dall'assunzione casalinga dei pasti derivano dalla polvere domestica, anche se è ancora poco chiara la loro esatta origine. Potrebbero, infatti, derivare non solo dall'interno delle case ma anche dall'ambiente circostante. Secondo gli autori della ricerca, è improbabile che queste microparticelle derivino dagli alimenti e dalla cottura, ma potrebbero provenire direttamente dai tessuti, vestiti e arredamento compresi, che sono presenti nella casa.
In realtà, si sa ancora molto poco riguardo la tossicità delle microplastiche e proprio per questo motivo dovrebbe esserci maggiore cautela. Lungo la filiera produttiva dovrebbe essere limitato l'uso della plastica per l'imballaggio degli alimenti e l'acqua potabile dovrebbe essere preferita, dove possibile, a quella in bottiglia.
Secondo diversi ricercatori, non sono ancora disponibili dati sufficienti per giungere a conclusioni riguardanti l'impatto delle microplastiche sull'ambiente marino e sull'uomo. Questi scarsi dati sono anche dovuti a scarsi investimenti per la ricerca in questo campo, che andrebbe indirizzata secondo le giuste priorità e necessità, in modo da gestire poi la situazione con interventi mirati e davvero utili.
In un'intervista al dott. Peter Hollman, uno degli autori della "dichiarazione sulla presenza di microplastiche e nanoplastica negli alimenti", ha evidenziato egli stesso come i dati sulla tossicità delle microplastiche siano insufficienti. Non solo, non è ancora noto che cosa succede dopo l'ingestione di queste microparticelle all'interno dell'organismo, anche in considerazione del fatto che le microplastiche possono andare a depositarsi a livello intracellulare. Ciò che potrebbe essere potenzialmente nocivo è l'accumulo di idrocarburi policiclici aromatici, o IPA, e altri composti, che possono andare ad accumularsi nelle microplastiche. In ogni caso, sembrerebbe che comunque le microplastiche possano contribuire sono in piccola parte all'aumento dell'assunzione di IPA.
Al fine di ridurre le microplastiche, ma anche l'impatto ambientale della plastica, iniziano a nascere diverse misure, anche governative. Un esempio è la legislazione dell'Unione Europea che ha reso obbligatori l'uso dei sacchetti biodegradabili e ha bandito l'uso di stoviglie di plastica monouso, rimpiazzate da diverse alternative come le cannucce commestibili.
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